TRIBUNALE ORDINARIO DI TORINO Sezione Terza penale Il giudice, dott. Paolo Gallo, ha pronunciato la seguente ordinanza nella causa penale contro R. K., nato ... elettivamente domiciliato ex art. 161 del codice di procedura penale presso il difensore d'ufficio, avv. Antonio Bernardo del Foro di Torino, libero presente, imputato del reato di cui all'art. 628, comma 2, codice penale perche', immediatamente dopo essersi impossessato di due mazzi di chiavi, diversi accendini, un paio di auricolari e un porta-carte di credito, sottratti dal cassetto portaoggetti dell'autovettura ... targata ... di proprieta' di M. G., adoperava violenza per assicurarsi il possesso delle cose sottratte e l'impunita'; in particolare strattonava T. G. intervenuto per impedirne la fuga, cosi' strappandogli la maglietta. Torino, 18 aprile 2019. Recidivo. Verso le ore 12,50 del 18 aprile 2019 l'odierno imputato, verosimilmente previa forzatura di un finestrino, si introdusse nell'abitacolo di una vettura posteggiata sulla pubblica via (per queste notizie, e quelle che seguono, si veda il verbale di arresto 18 aprile 2019 della Questura di Torino); rovisto' poi nei cassetti dell'abitacolo e sottrasse, mettendoseli in tasca, alcuni oggetti: due mazzi di chiavi, alcuni accendini, un paio di auricolari e un porta-carte di credito. Venne pero' notato da un amico del proprietario dell'autovettura, tale T. G. il quale contatto' telefonicamente le forze dell'ordine e contemporaneamente si porto' nei pressi della ... per impedire all'imputato di uscire dell'abitacolo, in attesa dell'arrivo della polizia. A quel punto l'imputato, dopo aver deposto su un sedile dell'auto gli oggetti che aveva sottratto, cerco' di uscire dall'abitacolo attraverso un finestrino abbassato (quello era evidentemente il varco da cui era entrato): in questa fase, per vincere la resistenza del T. che cercava di impedirgli l'uscita, strattono' il suo antagonista, fra l'altro strappandogli la maglietta; riusci' infine ad uscire dall'abitacolo ma fu comunque trattenuto sul posto dal T. e da alcuni passanti che gli avevano dato man forte. Giunse poi una volante della Questura di Torino che lo trasse in arresto per il reato di rapina impropria. R. K. e' stato cosi' presentato in udienza per la convalida dell'arresto e il contestuale giudizio direttissimo, nel corso del quale ha chiesto di essere giudicato con rito abbreviato. All'odierna udienza le parti hanno discusso la causa. Prima di emettere la sua decisione questo giudice ritiene necessario il pronunciamento della Corte costituzionale sulla compatibilita' della norma di cui all'art. 628, comma 2, codice penale con i principi fondamentali della nostra Carta costituzionale. Va brevemente premesso - per quanto attiene alla rilevanza della questione qui proposta - che alla stregua del verbale sopra riportato e degli altri atti del fascicolo, che non v'e' ragione di reputare inveritieri, i fatti si sono verificati in maniera pienamente conforme al paradigma normativo dell'art. 628, comma 2, codice penale: immediatamente dopo aver sottratto gli oggetti sopra elencati, e quando non era ancora uscito dall'abitacolo della vettura, il R. strattono' T. G. al fine di allontanarsi, e cosi' sfuggire all'identificazione e assicurarsi l'impunita' (le cose mobili sottratte erano state gia' deposte). Per quanto modesta possa essere stata la violenza adoperata (il T. non ha riportato lesioni, neppure lievi), essa va ritenuta pur sempre sufficiente a integrare il delitto contestato, e cio' alla luce della giurisprudenza di legittimita' che ancora di recente ha affermato: «La violenza necessaria per l'integrazione dell'elemento materiale della rapina puo' consistere anche in una spinta o in un semplice urto» (C. Cassazione, Sez. 2a, sentenza n. 3366 del 18 dicembre 2012 -23 gennaio 2013, RV 255199). Sussistono dunque tutti gli elementi costitutivi del contestato reato di rapina impropria, e questo giudice dovrebbe determinare la sanzione irroganda (salva l'ovvia applicazione di eventuali attenuanti e della diminuente conseguente al rito processuale adottato) all'interno della cornice edittale di cui all'art. 628, comma 1, codice penale, le cui sanzioni sono richiamate, in maniera «automatica», dal comma 2. E' noto che da sin da epoca remota la dottrina dubita della ragionevolezza della stessa esistenza del delitto di rapina impropria come figura autonoma di «reato complesso» (art. 84 codice penale) che si sostituisce ai reati di furto e violenza privata. Ha suscitato critiche, in particolare, l'identita' di trattamento sanzionatorio per due fattispecie - la rapina propria e quella impropria - che sia nella coscienza comune, sia nell'analisi criminologica, sono avvertite come assai diverse tra loro, e connotate da differenti gradi di disvalore. Queste perplessita' si sono recentemente accresciute dopo l'inasprimento del trattamento sanzionatorio introdotto con la legge n. 103 del 23 giugno 2017, la quale ha portato il minimo edittale della pena detentiva di cui all'art. 628, comma 1, codice penale ad anni quattro di reclusione, ma nulla ha innovato per quanto concerne il comma 2 e l'«effetto di trascinamento» che esso prevede. Da ultimo, infine, il problema e' venuto ad assumere connotati di vera e propria drammaticita', perche' con la recentissima legge 26 aprile 2019, n. 36 (entrata in vigore dopo il fatto per cui si procede, ma comunque ormai vigente) il minimo edittale della pena detentiva per la rapina -propria o impropria che sia - e' stato portato ad anni cinque (art. 6). Il descritto assetto normativo, a sommesso avviso di chi scrive, presenta alcuni punti di frizione con i valori costituzionali. a) Violazione dell'art. 3 Cost. La violazione del principio di uguaglianza risulta palese ove si considerino i diversi modi in cui puo' atteggiarsi il rapporto tra l'aggressione al patrimonio (=sottrazione di cosa mobile altrui) e l'aggressione alla persona (=violenza o minaccia): al comma 1 dell'art. 628 codice penale (rapina propria) la legge prevede, e punisce con pene giustamente severe, la situazione in cui la violenza precede la sottrazione della cosa altrui: il rigore del legislatore e' qui pienamente giustificato perche' colpisce un soggetto che ha dolosamente premeditato, come strumento fondamentale della sua azione delittuosa, l'aggressione all'incolumita' fisica altrui. Il delitto di rapina propria si connota dunque, quanto all'elemento oggettivo, per il ruolo fondamentale, centrale, primario dell'aggressione alla persona, la quale costituisce il primo approccio dell'agente alla vittima; quanto all'elemento psicologico si connota per un allarmante atteggiamento della volonta', che non esita a progettare l'uso della violenza alla persona a fini patrimoniali; nel comma 2 la situazione di fatto e' profondamente diversa: qui l'agente ha deciso di perseguire la finalita' di illecito arricchimento in maniera non violenta ma, per cosi' dire, clandestina («furtiva», appunto); l'uso della violenza o minaccia, scartato come prima opzione, si verifica quando, immediatamente dopo la sottrazione, il ladro viene scoperto (sia il fine di assicurare il possesso della refurtiva, sia quello di conseguire l'impunita', presuppongono necessariamente che taluno si sia accorto della condotta furtiva in atto): ecco allora che l'uso della violenza o minaccia, escluso in prima istanza dall'agente, viene per cosi' dire innescato dalla reazione della vittima o di terzi che intervengano in suo ausilio (per lo piu', ma non necessariamente, la forza pubblica): a quel punto puo' succedere che la tensione istintiva verso la liberta' induca a condotte violente che in origine si erano volute evitare. In sintesi, il fatto che la violenza segua alla sottrazione, e non la preceda, non sembra poter essere considerato irrilevante dal punto di vista criminologico: esso demarca una diversa e meno grave struttura oggettiva del reato e un diverso atteggiamento soggettivo quanto a intensita' del dolo e capacita' a delinquere. Ad avviso di chi scrive, pertanto, la piena equiparazione delle due situazioni sul piano della «risposta» dell'ordinamento penale costituisce una parificazione arbitraria, che non tiene conto del diverso disvalore delle due condotte esaminate. Il raffronto dei due primi commi dell'art. 628 codice penale rivela poi che la disciplina della rapina impropria e', per certi versi, addirittura deteriore per l'imputato rispetto a quella prevista per la - certamente piu' grave - rapina propria: ci si riferisce all'ipotesi del tentativo. Perche' si abbia rapina propria consumata e' richiesto - cosi' come per il furto - che l'agente realizzi sia la sottrazione della cosa mobile altrui (e cioe' la modo dalla sua collocazione originaria), sia l'impossessamento della cosa medesima (e cioe' l'acquisizione di una signoria piena e autonoma su di essa). I due momenti sono cronologicamente successivi, nel senso che l'impossessamento segue sempre, sia pure di un istante, alla sottrazione. Cio' premesso, si notera' che mentre nel caso della rapina propria (comma 1) si ha consumazione soltanto laddove l'agente abbia ottenuto con violenza non solo la sottrazione, ma anche l'impossessamento della cosa mobile altrui, residuando altrimenti solo una responsabilita' a titolo di tentativo, nel caso della rapina impropria e' sufficiente alla consumazione l'uso di violenza dopo la sola sottrazione: il testo della norma non lascia dubbi in proposito perche' espressamente prevede l'inflizione della stessa pena del comma 1 a «chi adopera violenza o minaccia immediatamente dopo la sottrazione, per assicurare ecc. ecc.». Si tratta di un punto assolutamente certo, ribadito di recente dalle Sezioni Unite penali della Corte di cassazione con la sentenza n. 34952 del 19 aprile/12 settembre 2012, RV 253153 (pag. 13): «Il comma secondo dell'art. 628 codice penale fa riferimento alla sola sottrazione e non anche all'impossessamento, cio' che conduce a ritenere che il delitto di rapina impropria si possa perfezionare anche se il reo usi violenza dopo la mera apprensione del bene, senza il conseguimento, sia pure per un breve spazio temporale, della disponibilita' autonoma della stessa.». Ne' il quadro normativo, ne' l'elaborazione dottrinale e giurisprudenziale giustificano in qualche modo questa anomalia in virtu' della la quale la rapina impropria, rispetto a quella propria, viene a configurarsi come una sorta di «reato a consumazione anticipata». Il tutto con ancor piu' palese violazione dei principi di uguaglianza e ragionevolezza. E' bene aggiungere, infine, che tale ingiustificata disparita' assume specifico rilievo nella presente vicenda: si e' infatti esposto piu' sopra che il R. strattono' il T. esattamente mentre tentava di uscire dall'abitacolo della ..., quando cioe' aveva bensi' sottratto le cose mobili altrui, ma non era riuscito ad impossessarsene: nondimeno egli dovrebbe essere ritenuto responsabile di rapina (impropria) consumata. La disposizione dell'art. 628, comma 2, codice penale, oltre ad equiparare ingiustamente situazioni di fatto diverse, rivela una ulteriore disparita' di trattamento laddove la condizione dell'autore di una rapina impropria - cioe' colui che usa violenza o minaccia immediatamente dopo la sottrazione - sia raffrontata con quella di chi commetta dapprima un furto e poi, dopo un tempo apprezzabile, usi violenza per conservare la cosa sottratta e/o conseguire l'impunita': e' il caso, comune nella prassi, del ladro d'auto che, guidando l'auto da lui rubata qualche ora prima, forzi un posto di blocco. In quest'ultimo caso la contestazione del reato di rapina e' assolutamente preclusa perche' manca la successione immediata fra sottrazione e violenza, e il reo si vedra' contestare i meno gravi delitti di furto e resistenza a P.U. La differenza tra le due situazioni risiede unicamente in un «problematico» elemento temporale: nel primo caso la violenza e' esercitata «immediatamente dopo» la sottrazione, nel secondo e' commessa dopo il trascorrere di un tempo piu' lungo. La prassi giudiziaria mostra cosi' continue discussioni tra difesa e accusa, rispettivamente impegnate a dimostrare la lunghezza di un certo intervallo temporale ovvero, al contrario, la sua brevita' (o - in alternativa - che quell'intervallo sia stato occupato da un continuo inseguimento). Ad avviso di chi scrive occorre invece affrontare una questione diversa: e' ragionevole la disparita' di trattamento dell'autore di un furto a seconda che egli - ceteris paribus - usi violenza immediatamente dopo la sottrazione ovvero a distanza di un maggior tempo da essa? Che differenza c'e' tra la condotta del ladro di una bicicletta che si divincoli dal proprietario intervenuto subito dopo la sottrazione, e quella del medesimo ladro che si divincoli nello stesso modo essendosi casualmente imbattuto nel proprietario qualche ora dopo? Il diverso trattamento giuridico rispecchia una reale differenza - sul piano criminologico o, se si vuole, assiologico - tra le due situazioni di fatto? Chi scrive ha cercato, nella produzione dottrinale e giurisprudenziale, una riflessione che tenti di spiegare in qualche modo la maggior gravita' - postulata dal legislatore - della prima ipotesi rispetto alla seconda; ma si e' trattato di ricerca vana, a cominciare dal fondamentale trattato del Manzini. Pare a questo giudice che la maggiore o minore distanza cronologica tra la sottrazione e l'uso della violenza sia un aspetto totalmente irrilevante sotto il profilo della gravita' della condotta: in entrambi i casi si hanno un attacco al patrimonio e un attacco alla persona di eguale gravita' sia sul piano oggettivo che soggettivo. La disposizione dell'art. 628, comma 2, codice penale sembra dunque in contrasto con l'art. 3 Cost. anche perche' tratta in maniera diversa situazioni di fatto che sul piano della condotta, del dolo, del pregiudizio alle vittime e di ogni altro aspetto penalmente significativo sono identiche. A questo punto sembra doveroso rimarcare che la evidenziata disparita' di trattamento sancita dall'art. 628, comma 2 del codice penale - in raffronto con le norme applicabili quando la violenza non segue immediatamente alla sottrazione - concerne profili assai rilevanti: le differenze di disciplina riguardano aspetti non marginali, ma - al contrario - aspetti governati da inderogabili principi costituzionali che sembrano percio' a loro volta disattesi. b) Violazione dell'art. 25, comma 2, Cost. Come e' noto, con il suo espresso richiamo al «fatto commesso» l'art. 25, comma 2 della nostra Carta costituzionale ha inteso riconoscere rilievo fondamentale, a fini punitivi, all'azione delittuosa per il suo obiettivo disvalore. Ne discende la costituzionalizzazione del «principio di offensivita'», che implica la necessita' di un trattamento penale differenziato per fatti diversi e, a monte, la necessita' di distinguere, in sede di redazione delle norme penali incriminatrici, i vari fenomeni delittuosi per le loro oggettive caratteristiche di lesivita' o pericolosita'. L'attuale disciplina giuridica della situazione in cui taluno debba rispondere di un furto, e di una violenza privata (o resistenza a P.U.) commessa non immediatamente dopo al fine di conseguire il possesso della refurtiva o l'impunita', e' palesemente rispettosa di questo principio. Per il furto e' prevista infatti una pena minima edittale di sei mesi di reclusione piu' multa, che si eleva nelle specifiche ipotesi di cui all'art. 624-bis del codice penale e che puo' eventualmente subire l'incidenza delle numerose aggravanti di cui all'art. 625 del codice penale e del giudizio di comparazione con eventuali attenuanti. Per quanto attiene alla violenza che segue alla sottrazione, l'art. 610 del codice penale consente di graduare la pena detentiva da quindici giorni fino a quattro anni, mentre l'art. 337 del codice penale (ove la vittima della violenza sia un pubblico ufficiale) prevede pene da sei mesi a cinque anni di reclusione. A tutto questo si aggiunge la disciplina del cumulo giuridico previsto dall'art. 81 del codice penale. Esiste dunque un corpus di disposizioni assai dettagliate ed evolute che consentono di ragguagliare la sanzione all'effettiva gravita' del fatto concreto in tutte le sue sfaccettature. La norma di cui all'art. 628, comma 2 del codice penale, invece, si caratterizza per una vistosa indifferenza rispetto alle caratteristiche concrete del fatto: qualunque sottrazione, quando sia immediatamente seguita da violenza o minaccia, ancorche' lievi, e' reputata dal legislatore meritevole di almeno quattro anni di reclusione (cinque dopo la legge n. 36/2019). Alla stregua dell'art. 628, comma 2 codice penale, se un tentativo di furto e' seguito da un atto violento o minatorio tutte le sopra elencate particolarita' vengono «azzerate», e non v'e' piu' differenza, ad esempio, se la violenza segue al furto nel caveau di' una banca ovvero alla sottrazione di qualche accendino da un'auto in sosta. La disposizione in esame, in altre parole, si rivela una disposizione «rozza», in cui tutto viene sacrificato sull'altare della «esemplarita'» sanzionatoria. c) Violazione dell'art. 27 Cost. Viene in rilievo particolarmente il comma 2, secondo cui «le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanita' e devono tendere alla rieducazione del condannato». La formulazione della norma, come e' noto, richiama e costituzionalizza il principio di proporzionalita' della pena (nelle sue due funzioni retributiva e rieducativa), perche' una pena sproporzionata alla gravita' del reato commesso da un lato non puo' correttamente assolvere alla funzione di ristabilimento della legalita' violata, dall'altro non potra' mai essere sentita dal condannato come rieducatrice: essa gli apparira' solo come brutale e irragionevole vendetta dello stato, suscitatrice di ulteriori istinti antisociali. Ad avviso di chi scrive l'inflizione di quattro (attualmente cinque) anni di reclusione piu' multa per la sottrazione di qualche oggetto di infimo valore seguita da qualche strattone non puo' essere considerata una risposta sanzionatoria proporzionata. Cio' risulta particolarmente vero ove si raffronti la condizione dell'autore di una rapina impropria - ancora una volta - da un lato con quella dell'autore di una rapina propria (che cioe' ha consapevolmente scelto ab initio di usare violenza alla persona), dall'altro con la condizione di chi abbia usato violenza alla persona in un momento non immediatamente seguente alla sottrazione, e che percio' rispondera' di furto e violenza privata. Va a questo punto chiarito quale sia l'auspicato intervento della Corte costituzionale. Le considerazioni sopra svolte rendono evidente come, ad avviso di chi scrive, il nostro ordinamento penale non abbia alcun bisogno della iniqua disposizione dell'art. 628, comma 2 del codice penale: le norme che disciplinano le varie ipotesi di furto (consumato o tentato, semplice o aggravato) consentono una repressione penale adeguata alle caratteristiche delle diverse condotte predatorie possibili, mentre le disposizioni in tema di violenza e minaccia come strumento di coazione dell'altrui volonta' (articoli 610 e 337 c.p.) consentono parimenti un'adeguata repressione della successiva condotta violenta del ladro, sia che essa segua immediatamente alla sottrazione, sia che venga attuata dopo un tempo piu' lungo. Ove si obietti che questa soluzione comporterebbe un arretramento della risposta dello stato al delitto, va osservato che la stragrande maggioranza dei processi per rapina impropria concerne, come e' noto a chi amministra da tempo la giustizia penale, episodi di modestissima gravita', rispetto ai quali una sanzione minima di cinque anni di reclusione appare vistosamente sproporzionata, mentre per i pochi episodi di piu' elevato allarme sociale la prudente applicazione giudiziale delle norme sopra citate, e un consapevole governo dei criteri di determinazione della pena di cui all'art. 133 del codice penale, assicurano un trattamento sanzionatorio adeguato. Questo giudice chiede pertanto che la Corte costituzionale voglia condividere i rilievi di incostituzionalita' sopra esposti e dichiarare sic et simpliciter l'illegittimita' costituzionale dell'art. 628, comma 2 del codice penale, fermi restando tutti i rimanenti commi del medesimo articolo, cosi' rendendo applicabili, a quelle ipotesi che attualmente si configurano come casi di «rapina impropria», le disposizioni di cui agli articoli da 624 a 626 del codice penale e agli articoli 610 e 337 del codice penale.